Riflettendo sulla croce

Riflettendo sulla croce

Se la resurrezione è la manifestazione più alta della potenza di Dio, la crocifissione
costituisce il suo atto supremo d’amore. Aveva mille altre soluzioni per redimere
l’uomo, ha scelto di aprire le braccia e farci dono di sé.
Una volta varcata la soglia del cenacolo inizia la solitudine di un uomo e di un Dio. I
suoi “amici”, così li aveva chiamati poco prima, si abbandonano al sonno. Nessuno di
essi riflette a ciò che da poco hanno vissuto, nessuno riesamina le parole che ha
pronunciato, parole in cui, oltre a grandi verità, ha calato tutto il suo cuore. Nessuno
richiama alla mente quella commozione con la quale un Dio si preoccupava per loro,
per il loro futuro, li raccomandava al Padre. Hanno sonno e dormono.
E Lui si discosta un tiro di sasso ad ubriacarsi della sua solitudine: solo davanti al
peccato del mondo, solo sotto il suo fardello. E’ questa solitudine il dolore più
grande, è questa lotta tra un Dio e la sua negazione, il male, l’evento cosmico più
impressionante al quale il mondo addormentato è chiamato ad assistere.
Ma almeno qui c’è suo Padre, anche se percepisce che anche Lui si sta allontanando.
Tuttavia lo sente ancora come una presenza a cui rivolgersi, a cui attaccarsi:
“Padre, allontana da me questo calice”
Un attimo di cedimento, di nausea per tutto ciò che rappresenta; ma subito si
riprende:
“Ma non la mia, ma la tua volontà”
E verrà anche il momento della croce, e là si sentirà un attimo abbandonato
veramente da tutti e, soprattutto, da suo Padre che non riconosce in quell’essere
per meato a tal punto dal peccato del mondo fino ad incarnarlo, il Figlio suo
prediletto, a Lui consustanziale. Ed esplode il grido più drammatico che la storia
conosca:
“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”
Dio abbandonato da Dio! Levato tra cielo e terra è deriso da questa mentre il Cielo
resta muto. Non si ripeterà mai più un dramma così terribile e misterioso nella storia
del mondo. Un dramma davanti al quale si resta interdetti intuendone la gravità e
non riuscendo a spiegarsi il come. Una cosa è certa: il Cristo, così levato tra cielo e
terra, può veramente chiedere:
“O voi tutti che passare per la strada, fermatevi e vedete se esiste un dolore simile al
mio dolore.”

Il dolore dell’anima è tale che quello del corpo è ben poca cosa. Molti al suo tempo
e nei secoli successivi hanno visto in quel crocifisso la fine di tante speranze; anche i
discepoli:
“…ma noi speravamo…”
Dicono i discepoli di Emmaus; hanno visto il fallimento di un illuso, un semplice, uno
che non conosce le cose del mondo; hanno visto la prova di una dottrina non vera e
la vergogna per chi lo ha seguito.
Eppure quel crocefisso, che lo si voglia o no, è il ponte steso tra Dio e gli uomini; è
un passaggio ricostruito, rifondato “sopra una pietra stabile”. Nulla lo potrà più
abbattere e chi vuole può percorrerlo per tornare al suo Dio.
Così la croce, lontano dall’essere il legno della vergogna, rappresenta il vessillo della
vittoria (Cor. 1,22-25).
Siamo stati redenti da un Dio crocifisso e ricongiunti alla divinità dalla quale ci
eravamo staccati, dall’amplesso di quelle braccia inerti:
“Quando sarò innalzato trarrò tutto a me”
Aveva detto. Nello squallore di quella croce sta la resurrezione dell’uomo. Ed allora
essa non è più un macabro strumento di martirio, ma diviene, come canta la Chiesa:
“Talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore.”
Non è la sua tomba, non è il suo patibolo: è la sorgente da cui erompe la
resurrezione di Cristo e la nostra: è la sorgente di una gioia perenne.
Marino

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